[racconti e appunti ispirati da
fotografie]
Il quarto d'ora del purgatorio.
Ogni volta che si svegliava e apriva le
palpebre era sempre la stessa storia. Il mondo esterno era bianco.
Tutto era bianco. Passava dal nero, neppure troppo scuro, degli occhi
chiusi al bianco, questo sì davvero troppo chiaro, del resto del
mondo. Il bianco del mondo esterno, infinito e spietato, aveva una
sua durata però e dipendeva dal tempo che i suoi occhi ci mettevano
ad abituarsi alla vista. La durata di questo limbo non era infinita
ma comunque lunga. E in quei minuti il candore pallido della realtà
era universale.
Sulle cause il medico era stato chiaro:
erano stati i mesi passati in Groenlandia per quel suo lavoro di
ricerca. Mesi di esposizione ad una luce forte e ininterrotta senza
le dovute protezioni. Il bianco gli era entrato nella retina e faceva
fatica ad andarsene.
Dopo alcuni minuti il biancore
universale però cominciava a cedere e timidamente piccoli dettagli
cominciavano a prendere forma. All'inizio erano semplici linee,
schizzi distratti in un foglio vuoto. Poi queste linee si facevano
più numeroso e si abbozzavano delle forme. Ciò avveniva al centro
del campo visivo, mentre intorno il bianco continuava a farla da
padrone.
Avendo un buon udito spesso i suoni
circostanti gli davano dei segnali importanti per interpretare quegli
abbozzi di forma, ma quel senso di incertezza non lo abbandonava
finché le linee non diventavano più consistenti.
Comunque ormai si era abituato, dal
momento in cui si svegliava a quando poteva dirsi lucido e operativo
dovevano passare almeno quindici minuti. Lui lo chiamava il quarto
d'ora del purgatorio.
La foto, che ho scattato il 19 maggio 2016 e che ha ispirato questo incipit di racconto, è la seguente: